Tutto quel che tranquillamente, pensa.
“Ha ragione la pianta, il perimetro del celeste da calcolare. Di là invece non saper guidare, non saper fare punto da mangiare e dipendersi così negli anni e negli anni sempre. Solo qui, qui solamente quel che è disponibile, come funzionano le cose, e giusto poi un appetito a seguire.”
Chi è.
Nasce discretamente e così continua un poco. Gomiti e le differite allontanano, un viaggio che non torna non sapremo se mai.
“Il caldo ad esempio, non puoi dire il caldo caldo. In secoli e secoli fu colui che faceva il mestiere di caldo, come un carattere, un accento, un sorriso, un dente.”
Seguiamo dove, allora.
“L’esilio nei territori dell’aria condizionata lì a rivelarlo qual egli era nella sua natura colpevole, dolosa: il caldo, fastidioso e insistente stalker di ogni e qualsiasi sempre. Ma non vi era alcuna memoria pronta a tradire, né giurisprudenza riguardo l’argomento, calcolabile infine nell’effetto, quando si parlano cose come queste.”
Nel montaggio perde la mandibola delle domande dirette, le predisposte a conoscere. Sviluppa improvviso a dismisura una spalla, quella del bastarsi un gesto, un’espressione affatto laterale. Cosi, disegnato con l’indice dell’immediata sensazione un perimetro, può anche accettare il contenuto che vuoi regalare, ne legge il peso ancor prima che arrivi a destinazione.
“Naturale se la maturità è cose di gioventù chiuse, imballate e spedite, e poi rigiocate, così, in talun piccolo azzardo affettivo, contrattuale, tanto per partecipare alle ribalte di una vita che già un po’ sai, dai.”
Esempio: un intero repertorio di scarpe e passi andati chissà dove lontano, intorno ai quarantacinque, cinquanta, verso un cielo che non tiene lo sguardo e tutto quel che esiste.
“Infine ci sarà nel buio di stanza un interruttore di serietà minima. ‘Sarà dove deve stare’. Intanto testi col palmo oltre lo stipite, lì, dove un tempo del tuo tempo lo avresti trovato subito.”
Accende.
Come alcuni alimenti che sanno star in piedi indipendentemente, non occorrono loro accostamenti, particolari sintesi con altri sapori o tentativi di uno chef, la sua mano non tiene conto del possibile scarto della coppia avversaria e fa un tentativo al limite. Così, visto oltre i vetri e la loro uniforme trasparenza che un tempo lineare ha donato come caposaldo, pare inaffondabile. Pochi leggono che quando un’evoluzione naturale acquisisce definizione – può accadere in seguito a lutto o confronto d’amore – si corre da soli, si colloquia coi vecchi, non si hanno prati da percorrere, prima che un intero impianto condiviso riesca pian piano a capire. Ecco, non ne ha inventato una tecnica, è lui stesso genere, nuovo genere di sé tra due tramonti di epoche.
Sta bene.
“Eppure si può prendere in corsa un corridoio, come usa fare una corrente d’aria, e si potrebbe dipingere – immagino – una linea certa che va da non si sa fino al tuo ascolto.”
Ma la linea è irregolata nel delicatismo appena percettibile – oggi – di un flauto che non sembra concertare definitivo, ma prova e sale, prova e scende, e ti giunge in un tu appena dismesso dal sonno laddove era – ieri – il quartetto d’archi di un bosco fermatosi per caso accanto alla tua auto nel centro di un’estate come questa, ventotto, trent’anni fa.”
E in pochi secondi risuona. Tutto.
È un teorico del risveglio totale, in fondo, e del pressing alto fin sulla linea dell’alba, elude la melina troppo mediana delle due e delle tre, e verticalizza rapido, quindi, sulle ali della sera. È Grande Olanda e non ha più nulla da dire, sembra.
Entra.
“Mi piacerebbe d’incanto si sciogliessero al caldo i ragionamenti già svolti, le cose sapute, dilemmi che no, poi evaporassero, si coordinassero in nuvola, nuvola che volasse lontano, ma tanto lontano da non pioverne più. Segue elenco:”
Nell’infinita sala d’attesa che fu quell’estate, solo una voce, solo una a distogliere dal mio tentativo di montaggio un momento:
“Vuole un caffè, dottor Fiankenstein?”
È il suo modo di vedere le cose, penso. Ha nuovi vent’anni oggi, ne è consapevole poiché ha mutato mondo, chiuso il precedente, cercato la responsabilità degli interruttori. Tutti. Anche quando voleva riposare. Oramai senza pigiama e senza vacanze, ha in tasca ancora quell’ironia che lei ha lasciato – e che dire se non ‘grazie’ – e che ti ripete ancora che può andar bene così, che il lavoro vero è stato fatto.
E poi fu Avviatore, che in quanto tale sarebbe stato in grado di tradurre in mappa, un volo ancora senza riferimenti. Forse questo. Una mappa in ampia prospettiva, intera perfino di vocabolario e di legenda. Vocabolarii e legende mobili, adattabili, poco grammatiche e talvolta un po’ naif, come a ogni neonato pionierismo è ancor possibile e concesso. Un pionierismo privato, un pionierismo di quartiere, condominio e sfumature, ma pronto a sorvolare – sfiorando e rischiando – le rocce millenarie delle rendite che oggi riaffiorano davvero tutte, da un oceano asciutto, concrete.
A quel punto nasce l’alba dei servizi – laddove certamente occorrono – per far presto, e una seconda linea melodica delle proposte, se ora mi è chiaro il senso.
“Se non si rivela in un dopoguerra un dopoguerra, dalla guerra c’è altissima una probabilità di non uscire mai più. Chiaro, il ritardo, la differita, il diverso calcolo del tempo. E chiaro, così vale la soglia del dolore. La più bassa, curiosamente, non dove dovrebbe essere, il governo: prende il dopoguerra e lo nasconde, manomette la bilancia degli anni, si compiace di uno sgambetto fatto al mondo. La penso così ricordando una pioggia che illuminò l’aria.”
Sì, mi è chiaro il senso.
“Non sarà il coefficiente di spigolo o insistenza a orientarla, ora?”
Un’intuizione clinica non da poco che riordina perfino il complessivo piano scaffali.
“La strada riconoscila, non perder tempo con il metodo, che è l’alibi di chi non ha capito.”
Sì, una decelerazione mortale nel dessert di un’analisi grammaticale dell’esistenza che non può più permettersi alcuno, più alcuno…
“Arrivederci, arrivederci.”
© Michele Fianco 2018
Leave a Reply